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di Paolo Giangrande Buongiorno Roberto! Lei è conosciuto principalmente per le sue esperienze a Lecce nei panni di calciatore e allenatore, ma, durante la sua carriera da calciatore, ha trascorso diversi anni a Monopoli. Che tipo di esperienza è stata? “Di Monopoli ho dei ricordi bellissimi, mia figlia maggiore è nata lì e ciò mi lega ancora di più alla città. Ho trascorso 6 anni, 4 anni in C1 e poi, dopo l’esperienza a Perugia, sono ritornato lì per gli ultimi 2 anni della mia carriera. Sono molto legato a quella città e trovo sempre il tempo per andare a trovare e salutare tanti vecchi amici”. Spostandoci tra le file dei giallorossi, invece, soprattutto negli ultimi anni, la Curva Nord leccese non rivolge mai cori verso singoli calciatori o allenatori. Lei invece è un’eccezione. Come si spiega questo affetto da parte dei tifosi? "Sinceramente non ho una vera spiegazione, se non il fatto di essere una persona del posto, di essere nato e cresciuto in questa società. Sono partito dall’essere un ragazzino della primavera, per poi diventare giocatore e infine allenatore. Credo che in me abbiano visto un forte attaccamento alla squadra. Credo che abbiano intuito che dico quello che penso e che ciò sia apprezzato in linea generale da una buona parte delle persone". Lei è uno dei protagonisti della prima promozione del Lecce in Serie A. Com’è stato raggiungere questo importante traguardo? “Era un contesto completamente differente da quello attuale. C’era un gruppo squadra-formidabile, in un calcio diverso. La gente era molto più partecipe e riempiva quasi completamente lo stadio. Era una squadra che all’inizio non aveva grandi ambizioni. Man mano, crescendo, insieme ad un allenatore di grandissima qualità, un innovatore come Fascetti, siamo diventati veramente una squadra formidabile. Il fatto che è stata la prima promozione del Lecce in serie A, ha reso la dimensione dell’impresa così clamorosa". Quegli anni sono stati segnati, purtroppo, da un bruttissimo episodio, la scomparsa dei suoi compagni Michele Lorusso e Ciro Pezzella. Molti tifosi non hanno avuto la possibilità di conoscerli, che persone erano anche all’interno dello spogliatoio? "Questa domanda mi fa molto piacere. Fu un evento drammatico per noi, perché erano due pilastri per la squadra, due ragazzi che avevano sposato la città. Pezzella, pur essendo di Ercolano, aveva trovato moglie e viveva ormai a Lecce. Michele Lorusso era diventato un leccese d’adozione. Erano due ragazzi speciali, nello spogliatoio aiutavano tanto i compagni e, se c’era da “menare”, nel senso metaforico, menavano. Erano due persone splendide oltre che due ottimi giocatori. Io ero molto giovane, quindi facevo molto affidamento sui loro consigli, mi sentivo protetto da loro due. Quello che successe mi toccò profondamente, il gol nella partita successiva fu una liberazione, e la corsa verso le foto di Ciro e Michele esposte in curva fu una sorta di suffragio verso due ragazzi che ci avevano lasciato troppo presto". Lei di gol decisivi ne ha fatti tanti, quello che i tifosi del Lecce ricordano con più piacere è quello contro il Bari nell’85. Com’è per un leccese segnare un gol decisivo in un derby? "Questo gol ha segnato la mia vita. Probabilmente è stato il gol più brutto della mia carriera. Ne ho fatti di più belli ma indubbiamente per me e per i tifosi è stata la rete più significativa. L’emozione rimane forte. Mi fa piacere che sia rimasto impresso anche nella mente dei tifosi, anche perché fu un gol sufficientemente decisivo per cambiare le sorti del campionato a nostro favore. A fine anno raggiungemmo la Serie A". Un altro gol decisivo fu quello contro l’Atalanta. E’ a Bergamo che nacque il soprannome RobiGol? "Quello fu molto bello, un tiro di contro balzo, dallo spigolo dell’area grande, che finì all’incrocio dei pali dalla parte opposta. Fu un gol praticamente a tempo scaduto. Credo che Robigol nacque a Catanzaro. Vincemmo per 1-0 una partita importantissima grazie ad un mio gol. Sulla panchina del Catanzaro sedeva un leccese, il compianto Mimino Renna". Durante gli anni 80/81, in cui lei esordì in serie B con la maglia del Lecce, i leccesi in squadra erano ben 6. Quanto influisce avere così tanti leccesi in rosa? "I ragazzi del posto danno un’ identità alla squadra, agevolano molto l’ambientamento dei nuovi giocatori. All’ epoca quando arrivava un nuovo elemento, l’ integrazione avveniva grazie ai leccesi che cominciavano a portarli in giro, a far conoscere loro la città e qualche buon ristorante. Quell’anno giocavano molti leccesi ed erano anche molto bravi". Anche da allenatore, lei ha scritto una pagina di storia importante del Lecce calcio, vincendo per ben due volte consecutive il Campionato Primavera oltre, a due Coppa Italia e due Supercoppe. "Al di là del risultato sportivo, c’è stato il grande interesse del Salento per quella formazione primavera e per tutto il settore giovanile che, in quegli anni, ha fornito giocatori di ottimo livello alla prima squadra ed ha contribuito, anche, a far quadrare i bilanci societari. Alcuni giocatori di quella squadra si sono dimostrati delle piacevoli sorprese, non molto conosciuti nel panorama leccese, ma che hanno avuto importanti carriere in Serie A. Uno di questi è Morleo, partito dalle giovanili del Lecce, è arrivato a fare il capitano del Bologna e a giocare forse più di 200 partite in Serie A. Pellè non aveva una grandissima considerazione, sia dei dirigenti sia dei tifosi. Successivamente è arrivato a giocare nella nazionale di Antonio Conte. Ci sono stati altri calciatori, dei quali è risaltata subito la capacità di fare calcio, come Ledesma e Vucinic. Ma vorrei ricordare i tanti salentini che erano in quella squadra come Esposito, Camisa, un leccese d’adozione come Rullo, Giorgino, che hanno esordito in Serie A e che hanno avuto delle discrete carriere. Erano delle squadre forti e, anche quelle, molto identitarie. Le squadre che hanno vinto quei trofei erano composte per l’80% da salentini. In aggiunta a loro, giocavano giocatori come Diarra, che secondo me ha dato molto meno delle sue possibilità". Ricordiamo, inoltre, quando le viene affidata la prima squadra, dopo la gestione di Beretta e Baldini. "Quella è stata l’esperienza che più ha segnato il mio percorso da allenatore. Con una squadra virtualmente retrocessa, viaggiammo ad una media punti di un punto a partita e, in quegli anni, con un punto a partita ti saresti salvato. Facemmo dei risultati importanti. Vincemmo con il Milan e a Genova con la Sampdoria. Purtroppo l’ultima partita la giocammo a Messina e perdemmo. Arbitrava Racalbuto, poi tristemente finito agli onori della cronaca". Ha avuto anche un esperienza da vice-allenatore con De Canio. "L’esperienza da vice-allenatore fu diversa. L’anno prima vinsi il campionato a Matera e la Coppa Italia di Serie D. Intenzionato a tornare nel calcio che conta, venni a Lecce con De Canio. Vincemmo la partita con la Juventus, con me in panchina, ma una cosa è farlo da vice-allenatore, una cosa è farlo da allenatore. Stavo molto sul campo ad allenare, ma le scelte le prendeva il mister. Quel ruolo l’ho svolto sempre in maniera professionale, ma credo di essere più adatto a fare l’allenatore". Come si esprime, invece, sullo scandalo calcio-scommesse che penalizzò molto il club salentino? "Appena venni a sapere di cosa fosse successo fuori dal campo, provai un po’ di nausea. Col tempo capì che quell’errore era stato commesso per cercare di “fare del bene” a squadra e società. Purtroppo ha macchiato in modo indelebile la storia del club . La partita di Bari fu regolare, infatti, si parlò di tentata combine, non realizzata. In campo i ragazzi diedero l’anima, Giacomazzi ci rimise anche un ginocchio. Un avvenimento del genere, per uno sportivo, è la cosa peggiore che possa accadere e ti rimane dentro per sempre. Posso immaginare la delusione dei tifosi". Sulla sua ultima esperienza a Lecce invece… "Quell’esperienza è stata bellissima. Non era mia intenzione accettare l’incarico, ci ho riflettuto un bel po’ ma, più passavano le ore e più sentivo il debito morale nei confronti dei tifosi e, soprattutto, della società che mi aveva cercato. Non mi sembrava opportuno tirarmi fuori in un momento di grande difficoltà. Il Lecce era contestato nonostante il secondo posto, la prospettiva di giocarci i play-off in quelle condizioni non è che fosse il massimo. Non chiesi nulla alla società, mi fecero un contratto per quei due mesi che mancavano, qualcun altro ne avrebbe approfittato per chiedere almeno due anni di contratto. Successivamente fui riconfermato anche per l’anno successivo. L’impatto emotivo per un leccese è troppo forte, è un’esperienza altamente gratificante ma emotivamente è troppo coinvolgente. Sei costretto a non pensare solo alla squadra, ma anche a tutto ciò che c’è attorno. E’ la tua città, ci vivi, non puoi chiuderti in una bolla. Tant’è che a un certo punto ho deciso, con grande rammarico, di lasciare". Segue ancora i giallorossi allo stadio? "A dire il vero, io sono un pigro per natura, non vado allo stadio dalla mia ultima esperienza a Lecce. Magari tornerò presto per una partita importante".
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