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La trasferta è il vero momento del tifoso. Organizzarla, partire, viaggiare in aereo, in pullman o in macchina ed arrivare allo stadio. Tutto fa parte di un rito che si ripete per 19 volte l’anno e che permette a tutti di rappresentare la propria squadra del cuore lontano da casa.

Roma è una trasferta “comoda”. 6 ore da casa per chi vive nel Salento e meta facilmente raggiungibile per chi risiede nei dintorni o a Nord della penisola. Insomma, di solito la tifoseria salentina quel settore ospiti lo riempie sia contro la Roma che contro la Lazio.

(Dis) organizzazione Capitale 

Arrivando nella Capitale ci si aspetta un’organizzazione all’altezza. Sfidando i giallorossi capitolini pure, perché la squadra ora allenata da Ranieri partecipa quasi tutti gli anni alle coppe europee ed in campionato vive spesso big match di livello, accogliendo quindi migliaia di tifosi ospiti. Ecco, quello che ci aspettavamo però non corrisponde a quanto vissuto ieri sera.

Innanzitutto, i controlli. In quattro momenti diversi– quattro per davvero – abbiamo dovuto mostrare il biglietto ed il documento di riconoscimento. Alla fine, gli steward conoscevano a memoria il nostro codice fiscale e ci avevano perquisito talmente tante volte che le bottigliette d’acqua a disposizione erano finite. 

Stadio Olimpico

In gabbia

Poi la gabbia. Lo definiremmo così lo spazio nel quale ci hanno fatto gentilmente, si fa per dire chiaramente, attendere l’ingresso allo stadio dai tornelli. 3 tornelli che funzionavano e si bloccavano ripetutamente, mentre la gente aumentava e lo spazio per persona diminuiva sempre più. Chi scrive è arrivato in questa zona dell’Olimpico alle 19:50 ed è riuscito a salire sugli spalti intorno alle 21:10, poco dopo il primo gol della Roma. 20 minuti di partita persi, nonostante i 33,50 euro spesi per assistere a questo spettacolo ed il trattamento riservatoci appena raccontato. 

In quella gabbia c’erano bambini piccoli che chiedevano spiegazioni ai genitori, i quali non sapevano che dire, come spiegare che no, non avevano fatto nulla di sbagliato eppure erano bloccati lì, in dieci metri quadrati insieme ad altri 3000 tifosi senza un valido motivo. Solo perché funziona così e l’unico errore commesso è stato quello di assecondare la propria passione ed andare in trasferta. 

Quei bambini difficilmente torneranno all’Olimpico il prossimo anno – salvezza permettendo – e difficilmente avranno nuovamente l’entusiasmo per andare in trasferta. Cosa c’è di bello in tutto questo? Come faranno ad innamorarsi se vivono sulla loro pelle queste (dis) avventure?

Una spiacevole ed assurda normalità 

Chi viaggia spesso ha raccontato che quanto accaduto ieri è la normalità. Trattati come delinquenti con la sola condanna di tifare Lecce, una discriminazione territoriale che alle nostre latitudini non avviene, perché qui l’attenzione per gli ospiti è sacra, anche maggiore rispetto a quella riservata ai padroni di casa. Della serie “signori si nasce e noi lo siamo nati”. 

Quando vivi sulla propria pelle tutto questo – e per pelle intendo tornare a casa con lividi grossi come ciliegie sul corpo per entrare da un tornello che non ne voleva sapere di aprirsi – allora tutto passa in secondo piano. E l’orgoglio di rappresentare la squadra per la propria terra fa a pugni con la delusione per un sistema calcio che mette sempre i tifosi all’ultimo posto. Ma prima o poi questi si stancheranno ed allora sì che inizieranno davvero i problemi. Problemi vostri. 

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