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Tre anni fa ci ha lasciato Davide Astori, il difensore e capitano della Fiorentina. La sua morte improvvisa ha sconvolto il mondo del calcio, che ancora oggi non riesce a darsi una spiegazione sul perché una cosa del genere sia accaduta ad un ragazzo di soli 31 anni. Cronache di Spogliatoio oggi ha voluto ricordarlo attraverso una lettera di Riccardo Saponara, ex trequartista del Lecce. Lui ha voluto raccontarlo in ogni aspetto, sia in campo che fuori, parlando di esperienze vissute con Astori e momenti che avrebbero dovuto passare insieme. Ecco di seguito alcune parti della toccante intervista: "Sono passati tre anni e mi manca la tua spalla. Eravamo seduti accanto in sala pranzo, e sai che spesso mi appoggiavo a te come si fa con un fratello maggiore. Mi hai dimostrato di essere una persona unica, un leader diverso. Come quella volta in cui ho firmato con la Fiorentina. Il Team Manager mi inserì nel gruppo WhatsApp ed ero soltanto un numero nella rubrica di molti, come accade quando si cambia squadra. Un +39 anonimo dentro a un cellulare. E invece no: tu chiedesti il mio contatto e mi scrivesti subito. «Per qualsiasi cosa, conta pure su di me». Parole semplici, ma che in quel momento mi hanno fatto sentire meno solo. Non ci conoscevamo, ma lo spavento che provavo nell’entrare in uno spogliatoio nuovo dopo tre anni a Empoli fu spazzato via in un secondo. Mi hai sempre dimostrato cosa significasse per te essere un amico, nei piccoli gesti quotidiani. Te lo avevo detto quel giorno: «Guarda che oggi non gioco». Tu, invece, testardo, mi ripetevi che sarei stato titolare. Lo facevi per me, lo so, ma alla fine il mister mi mandò in tribuna, addirittura. A volte rileggo quel messaggio che mi inviasti durante il tragitto verso lo stadio: «Stai andando bene, stai crescendo. Oggi non giochi, ma sei sulla strada giusta per tornare al tuo livello. Continua così». La mattina scesi per fare colazione. Vidi le tue scarpe appoggiate fuori dalla camera di Marco. Se le sarà dimenticate lì ieri sera, pensai. Le tue posate, il tuo piatto e il tuo tovagliolo erano intatti. Strano, eri sempre il primo. Sarà stato un cameriere a cambiare il coperto. Non ci feci caso. Tornai in camera da Vincent Laurini, il mio compagno di stanza, per trascorrere le due ore prima del pranzo. Sentii il rumore di un’ambulanza e mi affacciai alla finestra. I portelloni sul retro erano aperti, le luci lampeggiavano di un blu più freddo del solito. C’era anche Leo, il nostro magazziniere, che camminava avanti e indietro nel parcheggio, fumando una sigaretta. La stava consumando tre tiri alla volta, in modo nervoso. «Leo, che fai?». Aveva la voce rotta, non riuscivo a comprendere la sua risposta. Mi sporsi dalla finestra per avvicinarmi a lui. Forse l’avevo già sentita, ma il mio cervello si rifiutava di recepirla, di incamerarla, di accettarla. Come un impulso che porta a un netto rifiuto. «Davide è morto!». Il vuoto, una scarica elettrica che ti paralizza. Non riuscivo a percepire la sua voce fino in fondo. O forse non volevo. Gli chiesi di ripetere una seconda volta, e lo fece. Mi voltai verso Vincent con gli occhi sbarrati. Come avrei dovuto comunicargli una cosa del genere? Non ci fu il tempo, perché qualcuno bussò alla porta della nostra camera. Aprii con la forza di chi ha smarrito il proprio io, di chi non è padrone del proprio corpo per qualche secondo. Le sue doti umane erano innate. Se stavi facendo un esercizio e accanto a te c’era un ragazzo straniero, che non conosceva la lingua, correva a rompere il silenzio inventandosi parole e facendolo sentire a suo agio. Poteva non parlare la lingua del compagno, ma non faceva alcuna differenza. Finiva tutto con una risata. Era il collante. Il leader che non ha bisogno dell’ufficialità della fascia per essere riconosciuto. In quella squadra così multietnica, lo spogliatoio non si era amalgamato automaticamente all’inizio. Il suo intervento fu fondamentale. E quando venne a mancare ci accorgemmo di quanto fosse pesante la sua presenza. Solo quando perdi qualcosa ti accorgi del suo reale valore, è vero, ma la sua forza era indiscutibile. E così sarà per sempre".
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